Cristiano, hai vissuto l’alluvione di maggio da dentro. A distanza di oltre sei mesi da quell’esperienza, e a pochi giorni dalle feste, come credi che sarà quest’anno il Natale in Romagna? Diverso o sempre uguale?

“Non lo so, adesso quando arriverà proprio il giorno di Natale saprò la risposta. Per me però sarà meglio. Perché qua intorno c’è stata un po’ di gente che non sapeva neanche se ci arrivava a Natale, e ahimè qualcuno non ce l’ha fatta. Però penso che alla fine sarà meglio per il semplice fatto di essere ancora qui, a Natale. Quando ero piccolo a Casola li chiamavano ‘i mali scordoni’, come ‘partorire’ è un ‘male scordone’. Quindi si spera che anche l’alluvione lo sia. Ecco, la gente ha riiniziato a sistemare, qualcuno ridipingerà la casa, qualcuno cambia l’intonaco. E lì forse hai dimenticato un po’ davvero la portata di quel male. Per me sarà un bel Natale”.

Dei giorni dell’alluvione è rimasta impressa un’immagine: è la quantità di scatoloni con dentro gli addobbi di Natale, alberi di plastica, palline, presepi, tutti infangati. C’erano in tutte le cantine... insomma, la cantina è stata un po’ simbolo dell’alluvione in Romagna. Il tuo albero di Natale si è salvato o l’hai dovuto ricomprare?

“Il nostro albero si è salvato, è sempre lui, le palline anche, alcune sono nuove, poi le bambine hanno un superpotere, ogni anno ne rompono una, che guarda caso è la più bella. È vero, le cantine sono state protagoniste di quelle settimane. La prima cantina che sono andato a svuotare era in una traversa di Via Comerio, qui a Faenza. Sono stato ad aiutare con mio figlio Giovanni e altri ragazzi, erano i primi giorni, non c’erano ancora i volontari, i magnifici volontari che poi sono venuti da ogni parte d’Italia. Eravamo tutti faentini e qualche casolano, che riusciva a venire giù. Era la cantina di un signore appassionato di vela, aveva tre àncore da spostare, un quintale l’una, una fatica a tirarle via... e il pavimento che aveva l’acqua sotto e scricchiolava, pensavo di romperlo e finire giù”.

Ci ripensi ancora a quei giorni, come stavate?

“Non so le altre persone, guarda, non lo so, posso parlare per me...era commovente ed esaltante insieme. Li ricordo come una montagna russa, ero carichissimo, con una forza incredibile, e l’attimo dopo mi veniva da piangere. Quando oggi vado in bagno di là, ripenso ancora che durante l’emergenza guardavo proprio dalla finestra, c’è un condominio con i garage interrati e a terra in quei giorni c’era un sacco del pattume. Io sapevo che stava arrivando l’acqua, era come un’apocalisse al rallentatore, e andavo alla finestra a controllare se quel sacco si spostava. Se stava fermo voleva dire che non c’era l’acqua. Poi c’è stato un momento che ci sono andato senza pensarci, ho buttato l’occhio, non c’era più il sacco, stava già andando, e l’acqua si stava alzando contro le porte dei garage, due metri d’acqua. Ancora adesso ci sono delle volte che vado in bagno e guardo fuori, mi sembra di vedere ancora quell’acqua gialla che cresce, non sempre, non tutti i giorni, però ogni tanto capita. Non so se questa sensazione andrà mai via, e ogni tanto mi sembra di sentire il rumore del fiume, ‘tuuuuuu’, come un tuono lontano che non finisce mai”.

Oggi l’alluvione che segni ha lasciato?

“Allora, i segni dell’alluvione qui in casa mia non si vedono, perché mio cugino Gianni di Ravenna, grande muratore, si è inventato questi battiscopa orribili. Lui ha detto che i battiscopa normali non riuscivamo a metterli perché il muro non è regolare, quindi ha messo delle travi di legno. Ora, se io adesso cavo quelle travi lì, per me viene giù la casa. Anche il muro ha tenuto, ma è un intonaco speciale di mio cugino, avrà una sua miscela particolare della Nasa, probabilmente, una cosa super tecnica. Questo che vedi è il mio parquet alluvionato, che era ricoperto dal limo fertile del Nilo, perché finalmente l’alluvione mi ha fatto scoprire cos’è il limo fertile del Nilo. Secondo me se lo leviamo ‘sto pavimento sotto ci sono gli alligatori”.

E nelle persone le ferite sono rimaste?

“Mia figlia Olivia ha dei compagni di classe che non sono ancora tornati a casa, abitano ospiti da qualche parte. Quando vedi quello che è successo al telegiornale non puoi realizzare esattamente come è, però quando lo vivi, perché tocca qualcuno vicino a te, vedi le sfumature che rendono la cosa veramente pesante. Immaginate qualcuno che è da mesi che non ha il suo bagno, che non ha il suo spazio perché ha dovuto lasciare una casa con dentro tutti i giochi, l’arredamento... non è facile. Passare nei quartieri e vedere che le case sono tutte buie, sono vuote, fa impressione”.

Tante case, tanti oggetti mangiati dall’acqua, ricordi, pezzi di vita che non si sono potuti salvare...

“Ci sono momenti in cui le cose bisogna che le lasci andare, non puoi salvare tutto. Io sono andato in una casa, dove abitava una signora vedova. Aveva conservato tutti i ricordi del marito, ma era tutto pieno di fango. Le abbiamo chiesto: ‘Signora, cosa teniamo?’ Lei mi ha guardato e ha detto: ‘Buttate via tutto, tutto’. In quella casa c’erano anche delle penne, quelle che usano i muratori, le ho tenute io, ho pensato che potevo scriverci con quelle penne, e ho scritto dei racconti. Anche io ho dovuto buttare via le maglie di Giovanni, perché le avevo usate per tamponare l’acqua, lui c’era cresciuto con quelle maglie, mi si è spezzato il cuore. Però col senno di poi non puoi stare attaccato a tutto quando fai naufragio, devi decidere cosa lasciare andare”.

Tantissime persone, storie, ricordi... ce ne racconti qualcuno?

“Sì, ce ne sono tantissimi. Per esempio, un signore che credeva di aver perso tutte le foto, le ‘mortaline’, di sua mamma scomparsa poco prima dell’alluvione. E invece no, ne era rimasta una, la corrente l’aveva spazzata fuori, e appiccicata al vetro di una Bmw tutta infangata, il ricordo della sua mamma restava in quell’unica foto superstite. Poi in quei giorni stava uscendo anche il mio ultimo libro, mi avevano invitato al Salone del libro a Torino, dopo tanti anni, e ovviamente non sono andato. Le scatole con i volumi erano rimaste fuori casa, sono scappate tre copie, due le ho perse, una l’ho trovata sotto la pianta di menta. Resta la copia alluvionata di un libro nuovo che ovviamente, giustamente, non ha comprato nessuno, avevamo altro a cui pensare”.

Hai scritto molto durante l’alluvione, anche sui social...

“In realtà non ho scritto proprio subito, diciamo che ho scritto meglio con il badile che con la penna. All’inizio facevo post tecnici, per scambiarci informazioni utili durante l’emergenza, ho anche chiesto dove fosse mia mamma. Lei abita a Casola Valsenio e lì non c’erano più i collegamenti, la corrente era saltata, girava voce che veniva giù il Paese. Ho iniziato a scrivere seriamente dopo che ero stato nelle case delle persone, perché mi sembrava proprio una testimonianza civile e volevo che fuori sapessero, al di là delle notizie sui numeri che davano i telegiornali. Volevo dare la misura del dolore o anche della gioia, perché ci sono stati anche momenti di grande vicinanza. Dovevo raccontare della foto della mamma appiccicata sul vetro di un’autovettura o l’emozione indescrivibile, come se avessi vinto un mondiale, di quando riesci a sturare un tombino. Buona parte del mio mestiere è proprio questo, rendere l’epica della quotidianità, non il fatto giornalistico, perché alla fine non vuoi sapere come frana un monte, vuoi sapere come franano le persone”.

E tua madre a Casola, isolata, come ha vissuto quei momenti?

“Mia mamma non è un carro armato solo perché non ha i cingoli, perché per il resto è indistruttibile. Tutti i casolani sono leggermente indistruttibili. Non ho capito se volevano sfollarla, comunque lei è rimasta lì, era tranquilla mentre intorno tutto franava. Anzi, raccoglieva nel suo pollaio le galline profughe. Ha salvato tutte quelle dei pollai colpiti dalle frane, le portavano a lei che aveva fatto questo piccolo campo profughi, con la scatola della gallina che veniva da quella signora, la scatola di un’altra. Di solito mia mamma ha il modello di gallina classica, quella color piadina bruciata, non so come dire. Ma adesso ci sono ancora le galline grigie, tipo televisore sintonizzato male, hanno una faccia strana, che non è di qua”.

Quando parli e scrivi si sente forte come un orgoglio di essere romagnolo, una fierezza...

“Dicono che noi romagnoli ce la tiriamo un po’. E ci può stare, ma non siamo migliori degli altri e in certe cose probabilmente siamo peggiori. Ma siamo fatti a modo nostro. Devi pensare che non abbiamo ereditato la Magna Grecia, questo posto era una palude, con malattie indicibili. A fine ‘800 c’è stata anche un’interrogazione nel Parlamento dei Savoia, in cui un senatore torinese propose di fare come negli Stati Uniti e trasformarci in una riserva, dove chiudere i romagnoli, perché non sapevano come fare, erano tutti repubblicani, non volevano il re. La terra in cui viviamo ce la siamo letteralmente inventata, tirandola fuori dall’acqua marcia, viene da lì il carattere, quello che siamo, ce lo siamo inventati anche quello. Pensa che qui sono nati gli Sciucaren, gente con la frusta, come Indiana Jones, che la fa battere al ritmo del liscio. L’abbiamo rubato agli austriaci e poi gli abbiamo messo il turbo. Poi sì, siamo un po’ dei patàca, però siamo bravi, e soprattutto non ci prendiamo mai troppo sul serio. È anche questa leggerezza che ci ha salvati nelle situazioni più difficili, anche in questa”.

Hai definito l’alluvione “la Storia con la ‘S’ maiuscola”. Secondo te c’è una morale in questa storia?

“Non lo so, ti dà l’idea che non funzioniamo male quando andiamo d’accordo, non funzioniamo per niente male. Perché in fondo non c’è una colpa, è un fiume, non è colpa sua. Io poi gli voglio anche bene al limo perché ho capito dove nasceva questo fango che ci ha ricoperti. ‘Tropico del fango’, l’ho chiamato così, questo nostro continente. Che era la terra delle colline, dove quelli come me sono nati, come fai a volergli male. Poi so come è la terra di Casola, di Modigliana; le prossime generazioni giù nella bassa tireranno fuori del granturco alto quattro metri. E forse è proprio questa la morale, insomma, non si butta via niente, come con i ciccioli, qualcosa di buono ne viene sempre fuori”.

Quando piove adesso è come prima?

“Ho sentito qualcuno dire che dopo quello che è successo odia la pioggia. Ma non sono mai riuscito a prendermela con gli elementi naturali e non lo so, a me personalmente non fa paura, anzi. In quei momenti sentivi gli elicotteri, gli allarmi delle macchine, che da lontano si avvicinavano e voleva dire che l’acqua era proprio dietro casa. Ma avevo fatto tutto quello che dovevo fare, avevo anche preparato il salvagente delle bambine sul tetto, io avrei fatto da àncora, ero a posto. L’alluvione mi ha fatto capire che sono un disastro per un sacco di cose ma in quella roba lì, in quel momento dell’apocalisse, non ho fatto una piega, come tutti qua intorno. E ancora adesso quando piove guardo la tempesta negli occhi e, come in ‘Grosso Guaio a China Town’, le dico: ‘Sferra il tuo colpo migliore, sono pronto’”.