Matteo Babbi è nato, vive e lavora a Cesena, è un designer. La mattina del 17 maggio ha chiamato il suo titolare: “Oggi non vengo, vado ad aiutare”. Il fiume Savio il pomeriggio del giorno prima era straripato e aveva invaso il centro storico della sua città. Poi Matteo a lavorare non ci è andato per una settimana. 

Come l’ha presa il tuo titolare?

È stato bravissimo mi ha detto: ‘Guarda, visto quello che è successo, non le conto come ferie, vai tranquillo’.

I primi giorni da volontario, come sono andati, che aiuto avete dato?

All’inizio era difficile, andava organizzato tutto. Abbiamo dato una mano alla Protezione civile a portare in salvo persone, loro avevano il gommone e lo abbiamo attaccato alla nostra Jeep. Poi portavamo quello che avevamo, anche della benzina per i generatori.

Quand’è che vi siete organizzati in gruppi di volontari? E come vi dividevate i compiti?

Dopo pochi giorni era già in funzione il servizio di ‘Volontari Sos’. Io entravo nel sistema e vedevo di cosa c’era bisogno e dove. Così come me facevano anche gli altri. Diciamo che all’inizio eravamo un po’ tutti nel centro storico di Cesena, in tantissimi. 
Due sportine della spesa a coprire le scarpe, un badile raccattato dal vicino, e via.  Non mi aspettavo così tanti volontari. Devo dire che la situazione era gravissima, ma forse era più grande l'entusiasmo di essere lì tutti insieme a fare la nostra parte.

Cosa ti ha colpito di più di questa esperienza? 

Di storie da raccontare ce ne sono tante, sia belle che brutte.  

Comincia da dove vuoi.

Da quelle meno belle: sono andato ad aiutare un ragazzo che si era sposato da poco. La sua casa era nuovissima, mi ha raccontato che i mobili erano arrivati da due settimane ed erano andati a viverci da una settimana. Era tutto da buttare. 

Era arrabbiato? 

Di rabbia, sinceramente, ne ho vista poca, in generale, si lavorava a testa bassa. Ogni tanto ci veniva da sdrammatizzare, con qualche coro, qualche battuta, però quelli erano solo spaccati. Però per noi era diverso, noi la sera tornavano nelle nostre case, mentre chi abitava lì faceva i conti con la perdita vera. 

Quindi più che altro il sentimento era quello di tristezza…

Sì, tristezza mista a voglia di reagire. Ti racconto un episodio che non dimenticherò mai: di mestiere faccio il designer, e conosco bene il valore simbolico delle immagini. Stavo aiutando un amico a sgomberare una cantina completamente invasa dal fango. Arrivava alle caviglie. Mi muovevo nel buio, sollevavo cose imbrattate, senza sapere cosa fossero, e le portavo sopra.  A un certo punto ho preso una cesta pesante, e quando siamo saliti l’abbiamo aperta.  C’erano dentro le diapositive del nonno, quindi tutte le foto di famiglia di una vita. Questa cosa che mi ha toccato molto. È stata un po’ una botta, avevamo salvato un ricordo. Una diapositiva gliel’ho chiesta, e me l’ha regalata: è un albero con la neve.

Ti rivedi nell’espressione ‘Angeli del fango’?

Non ci siamo posti il problema. Però, ci tengo molto a dirlo, non c'erano solamente gli spalatori, ci sono stati tanti tipi di volontariato.  C'è stata gente che veniva a far da mangiare per la strada,  c'erano bambine che portavano in giro l'acqua da bere o magari i biscotti e questa è una cosa incredibile. Ricordo anche un gruppo di cacciatori che era venuto qua e cucinava il cinghiale alle persone sfollate.

Gente che magari non si è sporcata fisicamente di fango, ma ha comunque dato una mano a tutti gli altri, più che Angeli del fango ci piace più definirci ‘chiburdelldepaciugh’, che tradotto è ‘quei ragazzi del pantano’.

E le storie belle?

Un bambino che stava lavorando sodo facendo scivolare il fango con il tira acqua... correva come un matto, si stava divertendo perché era orgoglioso di fare la sua parte e il padre lo incitava, dai dai e lui rideva, si divertiva. 

Poi ho un’immagine di persone che si muovevano tentoni dentro i campi completamente allagati. Pieni di papaveri e grano verde, illuminati dalla luce del tramonto, con le rondini che iniziavano a sfiorare l'acqua per mangiare. Era tragico e poetico insieme. Un paesaggio surreale, che personalmente porterò dietro per tanto tempo.