Anime sospese
Tommaso, faentino, 30 anni, psicologo dell’emergenza. Da volontario, insieme a tanti, contro la valanga emotiva che sembrava impossibile fermare: “Ho partecipato a missioni di salvataggio in situazioni di crisi, ma qui abbiamo tirato fuori dall’acqua parenti, amici. Persone che conosco da una vita, che ascoltavo al telefono mentre arrivavano i soccorsi”
Come sta chi chiede agli altri come stanno? Per non farli crollare, tenerli su il tempo che serve, almeno fino all’arrivo dei soccorsi. E oggi per ricucire traumi e disagi che dentro no, ancora non passano.
Tommaso, psicologo clinico specializzato in psico-traumatologia e psicologia dell’emergenza, ha lo studio in via Liverani, a pochi passi dal centro di Faenza. Una strada tranquilla, in leggera salita. La palazzina è piccola e bassa, il mare non è così lontano e dalla finestra si respira la Riviera: pino marittimo più salsedine, un po’ il profumo dell’estate.
Come il terremoto per l’Emilia, come la pandemia per il mondo intero, l’alluvione, in Romagna, ha segnato un prima e un dopo.
“Ho partecipato alle missioni di salvataggio al largo di Lampedusa e in Libia, ho già vissuto sul campo esperienze emergenziali e non era la prima volta che mi trovavo nel dramma e nel disagio spinto. Ma è diverso quando la tragedia coinvolge il tuo paese, i tuoi amici, chi conosci da una vita”. Tommaso ha 30 anni, una laurea e un master di specializzazione alle spalle, ed è uno psicologo della Sipem Sos, la Società Italiana di Psicologia dell’Emergenza Social Support, che dal 1999, assieme ai suoi volontari, presta assistenza nelle situazioni di crisi in tutta Italia. Chiedere come sta a chi si occupa di come stanno gli altri non è facile, tendono a parlare di tutto meno che di loro stessi.
“È una caratteristica del nostro mestiere: non tanto mettere da parte ciò che proviamo, quanto riconoscere, modulare e usare ciò che sentiamo per aiutare la persona con la quale ci stiamo relazionando. Come esseri umani, è impossibile non essere impattati da situazioni del genere. Soprattutto quando le persone da aiutare sono amici, familiari, conoscenti, e ci si sente sempre più disarmati. Ma grazie al lavoro di squadra, all’impegno di tutti, non sono mai stato da solo, nemmeno nelle prime ore. Proprio quella reazione spontanea delle persone, di tutti coloro che hanno dato una mano e che ancora oggi lo fanno, credo sia stata determinante. Ha attenuato la valanga emotiva di ciò che abbiamo vissuto, almeno in parte”.
Nel ricordare quei giorni drammatici, la voce di Tommaso non si perde a parlare di sé. Faentino di nascita, era in città mentre l’acqua del fiume Lamone saliva. Da subito ha indossato la divisa, assieme a tanti altri volontari - Croce Rossa, Protezione civile, Sipem Sos, ovviamente, ma anche cittadini, Vigili del fuoco, operatori comunali, Forze dell’ordine - per prestare soccorso, salvare la sua comunità. “Ricevevo molte chiamate, c’erano persone spaventate che potevano commettere anche gesti pericolosi, come lanciarsi in acqua per fuggire dalle abitazioni, altri erano bloccati in casa e rimanevo al telefono con loro, per non lasciarli soli nel momento dei soccorsi”, ricorda. “C’erano le famiglie terrorizzate per i propri cari, gli sfollati nei centri di accoglienza che presentavano stati dissociativi e vissuti di scompenso. C’era chi pensava al suicidio”.
In poche ore, in pochi giorni, migliaia di vite si sono intrecciate alla sua. Persone smarrite, altre in pericolo di vita, altre ancora che si prodigavano instancabili nei soccorsi. Chi era vuoto, chi sguardo trasparente, chi l’anima sospesa. Quante?
Difficile fare numeri per chi cerca di essere lì dove serve. Nell’emergenza il tempo si fonde e alla fine la sola cosa importante è andare avanti. “La mia responsabile mi ricordava di mangiare e di dormire, cose scontate, forse, ma in quella situazione dimentichi te stesso. Non saprei dire quante persone abbia assistito. Centinaia, sicuramente. La Sipem ne ha aiutate migliaia. Abbiamo diversi protocolli di intervento a seconda delle situazioni e della tipologia di vittime. Si fa uno screening, come al Pronto soccorso, e si gestisce l’intervento. Non solo verso i civili, ma anche i soccorritori: anche loro avevano bisogno di sostegno”.
Storie che Tommaso non ha dimenticato. Una fra molte: “Ricordo un signore anziano bloccato in casa, costretto a letto, sono rimasto al telefono con lui più di un’ora mentre aspettavamo i soccorsi. Avevo segnalato la sua posizione ma era impossibile capire dove fosse la sua casa: fango e acqua coprono tutto. Era molto spaventato, mi raccontava che l’acqua saliva e lui, steso, non poteva far nulla. A un certo punto cadde la linea, il telefono seppi poi che era finito in acqua. Ero certo avesse perso la vita. Poi ad un tratto la chiamata della Protezione civile: era salvo. Il materasso era antidecubito, pieno d’aria, e aveva galleggiato con lui sopra: il suo salvagente”. Un’altra, i nonni di un suo amico, entrambi ultraottantenni: “Anche loro bloccati in casa in via Carboni, una delle strade più colpite a Faenza. Si sono salvati usando un armadio come appoggio, con il marito che ha sostenuto la moglie con le braccia per più di due ore, fino all’arrivo dei soccorsi”. Ancora: “So di altri che si sono salvati salendo sul tetto con le vuvuzela, il fastidiosissimo aggeggio che abbiamo imparato a sentire negli stadi del mondiale in Sudafrica, per fare rumore e farsi sentire dagli elicotteri”.
Oggi, un anno dopo, il fango ha lasciato il segno: sui muri degli edifici, dentro i cervelli delle persone, nella mente di coloro che l’hanno combattuto. “Quando piove, molti hanno attacchi di panico. Stiamo tuttora lavorando per superare questo trauma. I disturbi dell’adattamento sono il problema più diffuso. E sono frequenti i disturbi d’ansia, soprattutto tra gli adolescenti”.
Per Tommaso, però, c’è anche qualcos’altro che dall’acqua è nato, o che forse il fango non ha saputo cancellare: la forza di una comunità intera. “È il lavoro di squadra che ci ha permesso di andare avanti. Lavorare insieme, le piazze invase da centinaia di ragazze e ragazzi provenienti da ogni parte, ecco: probabilmente il maggior supporto psicologico alla popolazione lo hanno dato loro. Vedere tante persone lì ad aiutare, a spalare fango che più spalavi più tornava, ha fatto la differenza. E la fa ancora oggi”.