Dodici mesi dopo, con ancora i segni dell’acqua che tracciano una linea inconfondibile sul bianco delle pareti, Elisa si guarda attorno, nel suo laboratorio ceramico da poco rimesso in sesto. E pensa a tutte le persone, molte di loro mai viste prima, che l’hanno aiutata a spalare via il fango, a lavare una ad una le ceramiche superstiti, a rimettersi in piedi per poter ricominciare a lavorare.

“Mi piacerebbe organizzare qualcosa, una piccola festa, un aperitivo, e dire a tutte quelle persone, a tutte quelle mani infaticabili e generose, quanto profonda, quanto enorme sia la mia gratitudine. Vedi? Mi commuovo al solo pensarci. Io non mi commuovo mai, ma quel ricordo, quelle persone sconosciute e solidali che passano davanti alla mia vetrina rotta e mi chiedono ‘Hai bisogno?’, mi fanno sempre piangere. Non un pianto triste, no. Mi commuove. A volte dimentichiamo, o ci siamo disabituati, all’altruismo”.

Insieme alla mamma Laura, Elisa è titolare della Vecchia Faenza, un laboratorio ceramico di quelli storici, aperto dal papà Gino più di cinquant’anni fa, nel 1967, che si nota subito per via delle centinaia di meravigliose ceramiche che accendono le vetrine di un milione di colori. Una volta, prima dell’alluvione, arrivavano a decorare il negozio fino al soffitto. Oggi è il confine dell’acqua a delimitarne l’altezza, un muro oltre il quale non si può andare. Ma il lavoro è ripartito, in laboratorio si è ricominciato a dipingere. Si lotta per tornare a pieno regime e quella barriera, non del tutto invisibile, in fondo è già stata infranta.

“L’acqua qui nel laboratorio è arrivata a più di due metri, quando si è ritirata sembrava tutto bombardato. C’erano quindici centimetri di fango dappertutto, denso e pesante come cemento, abbiamo dovuto estrarre le ceramiche dal pantano e lavarle a una a una. Ma siamo anche stati fortunati: non si sa come, tante cose in mezzo a quel fango non sono andate distrutte. Abbiamo perso tutte le terrecotte, certo, i forni e tantissimi libri, ai quali tenevo molto. Ma incredibilmente, in molti casi l’acqua ha sollevato e adagiato le ceramiche, e quando le abbiamo ripulite erano ancora intere. Vedi quel vaso?”, domanda indicando un enorme vaso alla raffaellesca, alto più di un metro, minuziosamente dipinto a mano dalla madre Laura nel 1981. Il valore si aggira sui diecimila euro, ma in realtà è un oggetto che per Elisa non ha prezzo. “L’acqua gli ha fatto fare il giro di mezzo negozio e poi lo ha appoggiato a terra, intatto”.

Lo stesso per un tavolo pieno di altre ceramiche: brocche, piattini, vasi, ciotole, tutte arrivate a destinazione, a distanza di cinque o sei metri dal via, intatte. Interi scaffali di oggetti si sono salvati e persino alcuni spolveri, i disegni preparatori, un pezzo di cultura e tradizione faentina, pur sporchi di fango e arricciati dall’acqua, sono stati recuperati.

E anche se il lavoro per pulire tutto è stato tanto, tantissimo, lei non ha dubbi: “Poteva andare molto peggio. La nostra casa, fortunatamente, non è stata colpita. È difficile dire quanti danni abbiamo subito, sono stati gravi e, oltre ai beni materiali, nessuno calcola mai il valore del tempo in cui rimani fermo, in cui non lavori, ma c’è anche quello. Però siamo qui, andiamo avanti”.

Non da soli. “A volte mi guardavo intorno e in mezzo a tutto quel fango, con tutto il nostro lavoro sommerso, o ribaltato, o da buttare, mi chiedevo cosa stessimo facendo, noi formichine, al centro di quel caos. Ma ogni giorno passava qualcuno, domandava se avessimo bisogno, arrivava con una aspiraliquidi, aiutava a lavare le ceramiche, a recuperare qualche vasetto di colore, dei pennelli sparsi per la stanza e, piano piano, abbiamo pulito tutto. Io la chiamo ‘la nostra magia’: perché altrimenti non so come spiegare tutto l’aiuto che abbiamo ricevuto. Amici, parenti, conoscenti, dipendenti e tanti sconosciuti che passavano di qui: se in quel momento eravamo a posto, indicavo qualche negozio vicino e via che andavano. Nessuno perdeva tempo, tutti aiutavano dove serviva, lavoravamo a testa bassa e mi rendo conto che a molte di quelle persone non sono riuscita a chiedere nemmeno il nome. Non c’è stato il tempo, anche solo due chiacchiere”.

“Oggi vorrei ringraziarli. Vorrei davvero dire loro, dal più profondo del mio cuore, grazie. E ringrazio anche i tanti clienti, vecchi e nuovi, che in quei giorni chiamavano per comprare le nostre ceramiche pur sapendo che non avremmo mai potuto consegnarle a breve, solo per darci una mano. ‘Vi aspettiamo’, ci dicevano, ‘non vi preoccupate’. Molti volontari hanno persino voluto comprare alcune ceramiche danneggiate, che io avrei buttato via. Le hanno prese per ricordo. Se non fosse stato per loro, per i volontari intendo, ci troveremmo ancora nel fango. E non solo noi. Tutta la città”.

Cose che ti rimangono dentro. “Ho imparato a non pensarci troppo, a prendere decisioni importanti in maniera istintiva e a lasciar andare quando era necessario farlo, ad accettare di gettare via qualcosa perché, se avessi cercato di salvare tutto, oggi sarei ancora qui a pulire. Ho imparato a dare valore all’essenziale, è questo che ho imparato”.